L’ordalìa

La religiosità dei Sardi nuragici si è caratterizzata, in modo particolare, per il culto delle acque, che rappresentavano per certi versi una “benedizione” della natura, ma a volte anche il mezzo attraverso il quale si manifestava il giudizio divino. Racconta Raffaele Pettazzoni, massimo storico italiano delle religioni (“La religione primitiva in Sardegna”- 1912), che “in certi luoghi” della Sardegna “pullulano fonti d’acque calde, miracolose per i loro effetti terapeutici, particolarmente efficaci per la cura degli occhi. Sugli occhi poi hanno anche un altro effetto: chi è sospettato di furto viene sottoposto alla prova dell’acqua, cioè a un lavacro degli occhi; se è innocente gli si aguzza la vista; se è colpevole, diventa cieco. Questo rito sardo per cui il medesimo elemento magico che opera in senso terapeutico è adibito anche a una specie di “giudizio di Dio”, rispecchia con tutta fedeltà le caratteristiche del pensiero religioso primitivo, che non distingue ancora nettamente fra il mondo fisico e il mondo morale”. Il culto delle acque è un tema che verrà trattato successivamente anche da altri autori, tra cui in particolare Giovanni Lilliu, che nel libro “Sardegna Nuragica” (2006), così scriveva: “Templi e fonti sono testimonianze significative di religione cui è sottesa la penuria di acque. Architetture che evocano insieme l’arte di cui fu capace la civiltà nuragica per raccogliere e conservare, come in uno scrigno, l’elemento liquido prezioso per i campi, il bestiame, l’uomo stesso. E la siccità (“sa siccagna” la chiamano oggi i Sardi): male antico come la peste, la carestia e la fame. Quale, o quali, divinità o esseri supremi le genti nuragiche evocavano per contrastare questo “ciclo infernale!? Certamente lo spirito “infernale” sotterraneo, che esse ritenevano albergasse nei pozzi e nelle fonti, ossia il toro. Le teste taurine scolpite sulle facciate dei templi di Sàrdara e Serri ne sono, più che indizi, prove. Si aggiunsero, a conferma, materiali in bronzo e terracotta che figurano o recano segni dell’animale divino. Nelle stipe del pozzo sacro di Camposanto-Olmedo, stava un idoletto bronzeo in forma di protome taurina; vasi votivi del pozzo di Serri presentano la superficie segnata da corna bovine stilizzate;

dal pozzo di Sàrdara viene il resto di un’anfora piriforme, dove uno strano essere antropomorfo stringe al petto un’asta cornuta (qui anche, tra i vasi rituali, ce n’è uno avente il collo conformato a “fallo”, simbolo che si addice al toro fecondatore al pari dell’acqua). Dio-Toro salutare, inoltre. Lo dicono le denominazioni di “Sa funtana de sos malàvidos” di Orani e di “sa funtana de is dolus” di Sardara, e lo ribadiscono gli autori antichi quando ricordano le virtù mediche fisiche e psichiche delle acque di vena.

E’possibile che lo stesso essere “infernale” entrasse nel giudicare i malvagi. In quei tempi lontani non esisteva il diritto positivo. Svelare la colpevolezza o l’innocenza si riteneva appartenesse al sovra-sensibile, che si estrinsecava attraverso misteriosi fenomeni naturali. Sull’effetto di questi si fondava la pena o l’assoluzione del reato. Le fonti antiche narrano che in Sardegna il giudizio di Dio fosse affidato alle acque calde (le stesse che curavano e guarivano le malattie degli uomini), cioè al dio delle acque. E’l’ordalia dell’acqua, di cui esiste un interessantissimo documento archeologico. Presso la chiesa rurale di Santa Lucia (si badi, la santa “degli occhi”, della luce) a Bonorva, sgorgano dal suolo trachitico numerose polle di acqua termominerale, effervescente. Una volta un insieme fitto di tali risorgive era raccolto dentro un recinto circolare, di m 35 x 36 di diametro, conformato a cavea come un anfiteatro, su cui sedeva la folla in qualità di testimone collettivo della cerimonia ordalica. Al giudizio di Dio veniva sottoposto il sospettato di furto (l’abigeato, antica ingloriosa virtù del pastore sardo). Dopo il giuramento del “fermato”, gli addetti al rituale ne immergevano la testa nell’acqua calda e frizzante.

Concludono gli autori antichi dicendo che, se l’indiziato non riusciva a sopportare il terribile effetto, diventava cieco per aver spergiurato, e ne risultava così la colpevolezza; se invece lo superava e anzi ci vedeva più chiaro, voleva dire che non aveva giurato il falso ed era innocente”.

Nelle immagini: i pozzi sacri di Sant’Anastasìa (“sa funtana ‘e is dolus”), a Sardara, e quello di S.Vittoria a Serri nelle foto di Francesca Cossu. In allegato anche “sa funtana is dolus” con sovrapposto il coccio in cui appare l’”essere con asta cornuta” citato da Giovanni Lilliu.

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