“Lo studioso che rivolge il suo pensiero all’isola di Sardegna ha subito dinnanzi alla sua mente la tipica costruzione millenaria dell’isola, il nuraghe, l’edificio megalitico che è per così dire il simbolo della nobile terra del Tirreno e che ne forma il più caratteristico monumento. Da molti lustri la disamina dei dotti e degli amatori si è rivolta a questi monumenti, indagandone la forma, la disposizione, la postura, discutendo, spesso in forma accademica e con spirito forense, sulla loro origine, sul loro uso, sulla loro età; solo da un secolo a questa parte, dopo l’impulso dato dal conte Alberto Lamarmora e dal canonico senatore Giovanni Spano, le ricerche furono dirette allo studio positivo degli avanzi nuragici ed alla loro esplorazione metodica, alla quale, seguendo le tracce dello Spano e dei suoi due allievi Vivanet e Nissardi, ho dato la mia trentennale attività di esploratore. Con questo metodo di indagine oggi si può dire assodata l’opinione che i nuraghi, sparsi a migliaia in tutto il suolo dell’isola, siano edifici destinati non a tutela dei morti, ma bensì a dimora dei viventi, disposti sul suolo sardo con un senso di completa conoscenza di tutto il territorio, con evidente scopo di vigilarlo, possederlo, contenderlo tenacemente contro qualunque invasore, noto od ignoto, fratello o straniero che fosse…”
Questo scriveva Antonio Taramelli nel 1934 (“Sardegna Archeologica” –reprint- Antonio Taramelli “Scavi e Scoperte 1922-1939” – Delfino Editore 1985). Oggi, dopo quasi novant’anni, sono in tanti ad interrogarsi sulla funzione (o sulle funzioni) dei nuraghi, che nonostante l’ottimismo del Taramelli, non è per niente assodata ma oggetto di interpretazioni svariate e spesso controverse.
Negli scatti di Sergio Melis i nuraghi: Piscu di Suelli; Sanilò e Tosingalo di Aidomaggiore; Ola di Oniferi, Longu di Padria e Dronnoro di Fonni.