In un suo interessante saggio il linguista e glottologo Massimo Pittau analizzava la localizzazione del Giardino delle Esperidi, collocandolo presumibilmente in Sardegna e puntualizzando, correttamente, che si trattasse comunque di una leggenda. Alle considerazioni di Massimo Pittau, riportate qui di seguito, mi permetterò di aggiungere una postilla riferita al mito di Fetonte che Ovidio racconta nelle sue Metamorfosi.
Tengo a mia volta a precisare che, trattandosi di una leggenda, debba necessariamente essere considerata come tale.
Scriveva Massimo Pittau: << Accingendomi a trattare del mito del “Giardino delle Esperidi”, ritengo importante premettere e precisare che io lo reputo esclusivamente e totalmente una “leggenda” e inoltre intendo non analizzare il suo contenuto simbolico od evemerico, ma limitarmi a tentare di ricostruire la sua localizzazione geografica, ossia in quale terra del Mediterraneo esso è stato dagli antichi Greci agli inizi localizzato e per quale circostanza geo-naturalistica. C’è da fare una prima considerazione di carattere linguistico: Esperidi, in greco Hespérhides, si riporta chiaramente all’appellativo greco hespérha «sera» = lat. vesper. Pertanto Hespérhides significava propriamente “Vespertine”, cioè “Ninfe della sera”. E infatti esse venivano chiamate anche “Figlie della Notte”, dato che il sole muore o tramonta in Occidente dopo la sera e verso la notte. Insomma le Esperidi erano le “Ninfe della sera, del tramonto o dell’Occidente”.
La funzione delle Esperidi era quella di sorvegliare, con l’aiuto di un serpente, il giardino degli Dèi, nel quale cresceva un albero coi pomi d’oro, regalo fatto dalla Madre Terra ad Hera in occasione delle nozze di costei con Zeus. Si deve premettere che il primo autore greco che cita le Esperidi è Esiodo (Theogonía 215 sgg.), il quale le chiama appunto “Figlie della Notte”. Ora, dato che Esiodo è vissuto a cavallo dei secoli VIII-VII avanti Cristo, è evidente che nella ricerca dell’origine del mito delle Esperidi non si può andare molto indietro di quel periodo, io penserei solamente di decenni. Intendo precisare il mio riferimento ad Esiodo: I) Egli, verso il 700 a. C., è venuto a conoscenza del mito del Giardino delle Esperidi da una tradizione orale? In questo caso non siamo in grado di appurare nulla di più; II) Egli è venuto a conoscenza del mito da una fonte scritta? In questo caso non si può andare più indietro della metà del secolo VIII avanti Cristo, periodo in cui i Greci cominciarono a scrivere adoperando l’alfabeto fenicio. Gli storici moderni della Grecia antica sono fondamentalmente d’accordo sul fatto che il più antico stanziamento dei Greci nel bacino centrale del Mediterraneo, ossia nel Tirreno, è stato nell’isola d’Ischia (Pythekoûsai), nel golfo di Napoli, dove si sarebbero stanziati nel 770 avanti Cristo. Un ventennio dopo, nel 750, sarebbero sbarcati nulla costa antistante della Campania e precisamente a Cuma. Qualche decennio dopo, nel 721/720, i Greci avrebbero fondato la loro colonie di Sibari, sulla costa calabra del Golfo di Taranto, e Crotone sulla costa calabra del Mar Ionio. Dopo avrebbero fondato, via via, le loro colonie sulla costa ionica della Sicilia.
Sembra inoltre che nel 580/576 coloni greci abbiano occupato l’isola di Lipari, in mezzo al Mar Tirreno.
Dunque, a prescindere da qualche lieve differenza di anni e di decenni, gli storici moderni sono tutti d’accordo che i Greci sono entrati e si sono stanziati nel Tirreno fondamentalmente nella seconda metà del secolo VIII avanti Cristo. Ebbene, per i Greci che ormai vivevano nelle coste del Tirreno e anche dello Ionio, cioè nella Magna Grecia, da quale terra in quel periodo era costituito l’Occidente? Non c’è da dubitarne: l’Occidente per essi era costituito dalla Sardegna. Dunque, a mio avviso, per questa semplice ma anche stringente considerazione di carattere storico-geografico, la prima localizzazione del mito del Giardino delle Esperidi è stata molto verosimilmente effettuata dai Greci in Sardegna. A questa considerazione storico-geografica si unisce un’altra di carattere geo-naturalistico: si deve considerare che il concetto di “giardino” richiama necessariamente l’esistenza di siti adatti alla coltivazione delle piante da frutto. Ebbene, da questo punto di vista la Sardegna si adattava alla perfezione a questa esigenza: l’Isola già da epoca antica ha conosciuto e conosce tuttora la coltivazione di quell’agrume molto caratteristico e anche vistoso che è il «cedro» (Citrus medica), il cui frutto è costituito da un grosso pomo di colore giallo e cioè del colore dell’oro. Lo scrittore latino Palladio Rutilio, nella sua famosa opera Opus Agriculturae (IV 10, 16) celebra la fertilità del territorio di Neapolis (sulla riva meridionale del Golfo di Oristano), dove possedeva dei fondi e dove coltivava con successo la pianta del cedro. In questo medesimo ordine di idee parlano molto chiaramente questi toponimi e idronimo sardi: Chiterru (frazione di Buddusò e cognome a Budoni e Padru), che probabilmente corrisponde al gentilizio etr. Cethurna, Ceturna e inoltre all’ital. antico cederno «cedro» (già prospettato come di origine etrusca); Cedrino, il fiume della Baronia; Villacidro (localmente Biddaxírdu, Biddexídru = Bidd’ ‘e Xídru) = «Villa dei cedri» (chídru, cídru «cedro» dal lat. citrus; sing., ma con valore collettivo). Nel presente il cedro viene coltivato con successo particolarmente nella costa orientale dell’Isola, meno esposta al maestrale, proprio di fronte alla Magna Grecia, nelle vallate della Baronia, dell’Ogliastra attorno a Tortolì e del Flumendosa nel Sarrabus. Si tenga presente che, sempre ai fini dell’esegesi del “Giardino delle Esperidi” qualche autore ha fatto riferimento ai “giardini di aranci”. Senonché questo accostamento va respinto sia perché le arance hanno un colore rosso e non giallo e quindi non appaiono del colore dell’oro, sia perché, come mi ha insegnato il mio collega e amico Ignazio Camarda, botanico dell’Università di Sassari, la coltivazione degli aranci è arrivata nel Mediterraneo centrale molto più tardi dell’epoca classica. Infine faccio osservare che nel mito del “Giardino delle Esperidi” è entrato anche quello di Ercole. Costui infatti sarebbe andato dalle Esperidi per cercarvi i pomi della immortalità. Inoltre egli avrebbe recuperato i montoni delle Esperidi, rubati loro da briganti (interveniva qui un gioco di parole, dato che il greco mêlon significa sia «pomo», sia «montone»). Ciò premesso, è appena il caso di ricordare che risulta documentata ampiamente la presenza del mitico Ercole o Heracle, anche identificato col fenicio Melqart, pure nella Sardegna antica: sono da citare alcune località denominate in suo onore, ad esempio l’Herculis insula = Asinara (Tolomeo, Plinio, Marciano Capella), la stazione stradale ad Herculem citata dal romano «Itinerario di Antonino» (83, 4) fra Tibula (Castelsardo) e Turris (Porto Torres) e che io localizzo presso San Michele di Plaiano (Sassari). Ma particolare importanza riveste per il mio intento l’arrivo (del tutto mitico?) in Sardegna, alla guida di Iolao, dei cinquanta Tespiadi, figli di Heracle, da lui avuti con altrettante figlie di Tespio (Pausania X 17). Per queste tre esposte ragioni, una storico-geografica, l’altra geo-naturalistica e la terza mitografica, a me sembra che sia molto verosimile la ipotesi che la prima localizzazione che i Greci fecero del mito del “Giardino delle Esperidi” sia stata per l’appunto nella Sardegna. Però in seguito avvenne che, a mano a mano che l’orizzonte marittimo dei Greci andò ampliandosi, soprattutto dopo la fondazione della loro grande colonia di Marsiglia nel 600 avanti Cristo e delle sue subcolonie, i Greci spostarono anche il loro “Occidente” e per conseguenza anche la localizzazione del mito del “Giardino delle Esperidi”. Lo spostarono nella penisola iberica e dopo addirittura alla fine della costa settentrionale dell’Africa, verso la montagna dell’Atlante; tanto è vero che anche la paternità delle Esperidi cambiò alcune volte, finendo con l’essere chiamate figlie del gigante Atlante.>>
Come citato nelle premesse, vorrei aggiungere una postilla a quanto scritto dal professor Pittau, richiamando il mito di Fetonte, figlio di Febo/Apollo, spesso identificato con il dio solare Helios. Fetonte, avendo ottenuto dal padre il permesso di guidare i “cavalli del sole” lungo la volta celeste, ne perse il controllo. I cavalli, imbizzarriti e galoppando all’impazzata “combinarono un disastro” (perdonate l’estrema sintesi) in cielo e in terra. Al che Zeus, furibondo, lo abbatté con un fulmine. Cosa successe subito dopo ce lo racconta Ovidio nelle sue “Metamorfosi”, scrivendo che “Phaëton per caelum praecipitat et in Eridanum cadit ubi Naides Hespiriae in tumulo corpus condunt” (Fetonte precipita nel cielo e cade nell’Eridano, dove le Naiadi dell’Esperia ne seppelliscono il corpo in una tomba). Se si considera che secondo la leggenda nel giardino delle Esperidi si fermavano a pascolare, alla fine di ogni giorno, i cavalli di Helios e che le Esperidi erano figlie di Forco, re mitologico di Sardegna e Corsica, perché non pensare che lo “spot” descritto da Ovidio fosse proprio la Sardegna, a conferma di quanto ipotizzato dal professor Pittau?
Rimane però da comprendere che rapporto ci potesse essere tra la nostra isola e l’Eridano. Un fiume che secondo Virgilio era ubicato in quegli “inferi” posti notoriamente nel lontano occidente e identificato a volte con il Po, a volte con il Rodano. Ebbene, sulla costa orientale del Sarrabus, in prossimità della foce del Flumendosa, esiste una piana denominata “Eringiana”, presso la quale era tra l’altro localizzato l’antico scalo portuale di Sarcapos. La similitudine tra i toponimi Eridano e Eringiana è palese, ma si può anche osservare che il territorio del Sarrabus è notoriamente rinomato anche per la produzione di agrumi -tra cui il cedro (Citrus medica) citato dal professor Pittau- ed è posto ad occidente delle coste tirreniche dove, come riferisce lo stesso Pittau, si erano stanziati i Greci.
Concludo qui la mia postilla, chiedendo scusa a chi dovesse venir colto da reazioni esantematiche al solo proferire la parola “mito”. Ma la storia della Sardegna è zeppa di toponimi e riferimenti leggendari che stimolano la fantasia ma anche qualche riflessione…che non guasta!
Nelle immagini: la caduta di Fetonte in un quadro di Hans Von Aachen e la piana di Eringiana alle foci del Flumendosa